1. A.A. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Trieste B.B. e “Makoto Società Sportiva Dilettantistica a r.l.” chiedendo il risarcimento del danno. Espose in particolare parte attrice quanto segue. In data (Omissis) l’attore era presente all’allenamento di (Omissis) tenuto da due maestri e durante la lezione era stata svolta attività di Spa rring (combattimento leggero con lieve contatto a coppie) tra i vari partecipanti. Nel corso di tale attività l’attore, impegnato con l’altro allievo B.B., aveva subito un forte calcio ai genitali. Il giorno seguente, alla luce dei dolori nel corso della notte ed il grosso versamento di sangue, venne diagnosticata la rottura traumatica del testicolo sinistro, successivamente asportato. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. Venne disposta CTU, che accertò l’esistenza di invalidità permanente nella misura del 6-7%. In sede di proposta di conciliazione del giudizio l’attore accettò la rinuncia alla domanda nei confronti della società sportiva.
2. Il Tribunale adito rigettò la domanda.
3. Avverso detta sentenza propose appello lo A.A.. Si costituì il B.B. chiedendo il rigetto dell’appello.
4. Con sentenza di data 8 aprile 2020 la Corte d’appello di Trieste rigettò l’appello. Premise la corte territoriale che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i falli commessi durante lo svolgimento di un’attività sportiva godevano della copertura della relativa scriminante se ed in quanto frutto di condotte colpose e funzionali al gioco. Osservò quindi che l’arte marziale denominata (Omissis), come appurato in primo grado mediante le notizie fornite dal sito ufficiale della Federazione del settore (l’esattezza delle quali non era stata contestata dall’appellante), esigeva il contatto fisico più completo che esistesse ed era, fra tutte le arti marziali, quella più efficace per la difesa personale – tanto da essere raccomandata per l’allenamento delle forze di polizia e dei militari -, il che aveva inevitabilmente comportato che il calcio inferto allo A.A., essendo connaturato al detto tipo di disciplina sportiva – sia pure per fini non agonistici – aveva costituito comunque un fallo in necessario collegamento funzionale con il modello sportivo di riferimento. Aggiunse che, costituendo la suddetta arte marziale una disciplina comunemente volta ad abbattere e placcare fisicamente l’avversario, attraverso l’uso di pugni e calci, la condotta dell’appellato, benchè avesse integrato un illecito sportivo, per avere offeso i genitali dello A.A., ed era stato caratterizzato da violenza, di grado però non incompatibile con le caratteristiche altrettanto violente della disciplina, non dava luogo a risarcimento.
5. Ha proposto ricorso per cassazione A.A. sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso B.B..
6. Con ordinanza di data 29 marzo 2022 della Sesta sezione civile è stato disposto il rinvio alla pubblica udienza. Il pubblico ministero ha presentato le conclusioni scritte. E’ stata presentata memoria.
1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 c.c., Cost., 32, 50 e 51 c.p., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che quanto in diritto affermato dal giudice del merito non può valere nel caso di sport c.d. a “violenza necessaria o di combattimento” perchè altrimenti si giungerebbe alla soluzione aberrante secondo cui la lesione sarebbe sempre discriminata perchè l’atto sportivo sarebbe sempre in collegamento funzionale con il giuoco, salvo situazioni limite. Aggiunge che, siccome negli sport da combattimento e/o arti marziali l’aggressione dell’avversario è parte integrante della stessa attività sportiva agonistica, la scriminante del “rischio consentito” dovrebbe operare solo ove vengano rispettate le regole del gioco, senza l’uso di colpi proibiti, e che dal regolamento della disciplina vengono definite azioni illegali i colpi, fra l’altro, al triangolo genitale. Osserva ancora che la violenza usata è stata non necessaria o funzionale all’atto sportivo in quanto si trattava di attività di Spa rring in allenamento, privo quindi di ogni funzione agonistica, e che la gravità della colpa discende anche dall’intensità della forza utilizzata, tale da cagionare la lesione nonostante la protezione della conchiglia.
1.1 I motivo è infondato. Come affermato dalla giurisprudenza penale, che è quella che più diffusamente ha trattato il tema del rapporto fra illecito sportivo ed illecito giuridicamente rilevante (nella specie penale), nella valutazione della colpa sportiva centrale è “l’analisi della situazione di fatto in rapporto al contesto e allo sviluppo dinamico dell’azione sportiva lesiva” (Cass. n. 8609 del 2022). Il fatto accertato dal giudice del merito, mancando un giudizio di contegno intenzionale, è nei termini della involontaria inosservanza della regola sportiva nel contesto di una attività non agonistica, ma di allenamento, in relazione a disciplina sportiva caratterizzata da assai elevato contatto fisico.
Nella pratica sportiva in generale, come affermato dalla giurisprudenza civile, il ricorso alla violenza, nel caso di violazione della regola, si traduce in illecito civile se è tale da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel contesto nel quale esso si svolge (Cass. n. 12012 del 2002; conformi Cass. n. 20597 del 2004 e n. 11270 del 2018). Nel caso ricorra la detta compatibilità l’illecito sportivo non ha natura di illecito civile perchè l’evento di danno trova giustificazione nel riconoscimento che l’ordinamento giuridico compie dell’attività sportiva, confinando nell’ambito dell’ordinamento sportivo la rilevanza dell’illecito di origine sportiva. Discende da ciò che l’illecito civile ricorre quando la fattispecie eccede la qualificazione di illecito meramente sportivo per l’emersione di una sproporzione della violenza adoperata rispetto alle caratteristiche del gioco ed allo specifico contesto. Il quid pluris richiesto attiene sia alle modalità del fatto, sia al requisito soggettivo, rilevante non solo sotto il profilo del dolo, come è evidente, ma anche della colpa, la quale acquista, alla stregua di colpa generica, la consistenza di regola cautelare di prudenza e diligenza, non riducibile quindi alla mera inosservanza della regola sportiva prevista dal regolamento della federazione in questione. L’illecito civile non è desumibile, come chiarito sempre dalla giurisprudenza penale, dall’entità delle lesioni (Cass. n. 3284 del 2022), ma dalla evidenziata eccedenza dell’illecito civile rispetto all’illecito sportivo. Caratteristica di questa eccedenza è la rottura del confinamento dell’illecito nei margini della pratica sportiva perchè l’azione si presenta come non funzionale allo scopo sportivo o comunque non compatibile con quest’ultimo.
Dal punto di vista strutturale la specie di colpa qui rilevante è omogenea all’eccesso colposo nelle scriminanti disciplinato dall’art. 55 del codice penale. Nella commissione del fatto lesivo, corrispondente a trasgressione di regola sportiva e tuttavia suscettibile di essere scriminato dal punto di vista della responsabilità civile in quanto attività sportiva, si è ecceduto, per negligenza e/o imprudenza, dai limiti della scriminante. Non di violazione della colpa specifica si è dunque trattato, perchè la mera violazione della regola sportiva resta sul piano dell’illecito sportivo, ma di colpa generica perchè per il mancato rispetto di diligenza e prudenza è stato oltrepassato il limite della causa di giustificazione in grado di scriminare la condotta che ha cagionato la lesione.
La natura di disciplina sportiva “a violenza necessaria” non muta il quadro dei principii illustrati, perchè anche in questo ambito non è predicabile la coincidenza mera di illecito sportivo ed illecito civile. Anche nel campo di uno sport caratterizzato da un contatto fisico assai elevato si pone la questione di un uso della violenza sproporzionato rispetto alla violenza postulata dalla disciplina sportiva e tale da renderla estranea allo scopo sportivo. Si pensi al caso dei colpi vietati – sotto la cintola, sulla nuca – nel pugilato: se tali colpi sono inferti nel corso dell’incontro fra i due contendenti nel pieno dell’attività agonistica è sicuramente consumato l’illecito sportivo, ma non può dirsi che si verifichi automaticamente l’illecito civile; se quei colpi sono inferti invece, sempre sull’onda dell’aggressività indotta dall’agonismo, con il contendente già al tappeto, emerge la configurabilità dell’illecito non solo sportivo, ma anche civile, per la non funzionalità dell’aggressione allo scopo sportivo, essendo il contendente già al tappetto. La presenza dell’illecito civile dipende quindi anche in questa tipologia di attività sportiva da un esercizio sproporzionato della violenza, in violazione del parametro della diligenza e prudenza, avuto riguardo alle caratteristiche della disciplina ed al particolare contesto in cui si è svolta la specifica pratica sportiva. La valutazione non può dunque essere svolta in astratto.
Proprio con riferimento ad una disciplina di combattimento (il karate) la giurisprudenza penale ha considerato rilevante ai fini dell’illecito civile una pluralità di circostanze, tali da giustificare l’adozione di una regola di prudenza: il fatto che si trattasse di un allenamento, richiedente quindi meno ardore agonistico e la cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all’avversario; la maggiore prudenza e cautela imposta dalla diversa esperienza e capacità dei combattenti, posto che il danneggiante era cintura nera e il danneggiato cintura bianca; la circostanza che il colpo inferto era quello del “calcio circolare”, uno dei colpi più semplici e perciò di regola facilmente controllabile; la mancanza dei consueti mezzi di protezione che si utilizzano nelle competizioni agonistiche. Alla luce di tale complesso di circostanze, Cass. n. 2765 del 2000 ha concluso che non era giustificato dall’esercizio dell’attività sportiva il comportamento dell’atleta, integrando così quest’ultimo il reato di lesioni personali colpose.
La sola circostanza ricorrente nel caso di specie, alla luce dell’accertamento svolto dal giudice del merito, è l’assenza del fine agonistico per il compimento dell’azione nel contesto di un allenamento. Nella memoria il ricorrente ha richiamato la qualità degli atleti, che sarebbero entrambi esperti e non dilettanti: in di Spa rte il giudizio di rilevanza giuridica, si tratta di circostanza nuova e soprattutto non accertata dal giudice del merito e che dunque non può essere valutata nella presente sede di legittimità. L’allenamento in pratica sportiva caratterizzata dal contatto fisico non può essere apprezzato alla stessa stregua dell’allenamento in pratica dal contatto eventuale. In quest’ultima la ricorrenza dell’allenamento dovrebbe ridurre l’agonismo e le sue diverse sfaccettature (energia, aggressività, velocità, istintività di reazioni), rendendo il contatto violento tendenzialmente meno giustificato. Nello sport da combattimento anche l’allenamento, benchè mancante del profilo agonistico, è connotato dal contatto fisico e dall’uso della forza, per cui la soglia di tolleranza della violenza resta più elevata rispetto all’allenamento di uno sport a violenza soltanto eventuale e nel quale la componente dell’impatto fisico dovrebbe trovare maggiore giustificazione nelle modalità agonistiche, estranee all’allenamento.
Alla luce di tale considerazione non può il mero dato dell’allenamento, in mancanza di altre circostanze qualificanti, deporre nel senso del carattere sproporzionato dell’uso della violenza nel singolo episodio. L’assenza dell’ardore agonistico, mancando altri profili caratterizzanti, non rende privo di giustificazione l’episodio di mera violazione della regola del gioco che non sia connotato da caratteristiche ulteriori rispetto al mero fatto dell’allenamento. Diversamente si giungerebbe alla conclusione che ogni volta che un illecito sportivo si sia verificato in allenamento per sport da combattimento dovrebbe ritenersi automaticamente, per il sol fatto della ricorrenza dell’allenamento, l’esistenza dell’illecito civile. Vero è che l’assenza di ardore agonistico rende più esposto l’illecito sportivo commesso in allenamento, rispetto a quello commesso nell’evento agonistico, alla responsabilità civile, ma, per quanto si è detto, devono essere presenti ulteriori circostanze ai fini dell’integrazione dell'”eccesso colposo”, quali, per tornare al precedente da ultimo richiamato, la sproporzione nel livello di abilità fra i due atleti e la natura elementare, e dunque facile controllabilità, della manovra atletica fonte della lesione.
Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “nello sport caratterizzato dal contatto fisico e dall’uso di una quota di violenza la violazione nel corso di attività di allenamento di una regola del regolamento sportivo non costituisce di per sè illecito civile in mancanza di altre circostanze rilevanti ai fini del carattere ingiustificato dell’azione dell’atleta”.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che il contenuto delle notizie fornite dal sito ufficiale della Federazione era stato contestato con il primo motivo di appello, per cui hanno errato i giudici del merito nel valutare le (Omissis) come uno sport in cui la violenza può trascendere senza limiti. Aggiunge che ritenere che si tratti di uno sport inneggiante alla violenza ha influenzato la valutazione della soglia di violenza ammissibile anche nel caso di semplice allenamento.
2.1. Il motivo è inammissibile. La censura è estranea alla ratio decidendi e pertanto priva di decisività. La corte territoriale non ha affermato che nello sport in questione la violenza può trascendere senza limiti, o addirittura che trattasi di sport inneggiante alla violenza, ma ha soltanto rilevato che trattasi dello sport con il contatto fisico più completo, costituendo la disciplina più efficace per la difesa personale.
3. Con il terzo motivo si denuncia erronea applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che nel caso di accoglimento del ricorso la sentenza impugnata va cassata anche in relazione al regolamento delle spese.
3.1. Il motivo è inammissibile in quanto trattasi di non motivo stante la caducazione del regolamento sulle spese a seguito della cassazione della sentenza.
4. La novità del principio di diritto enunciato costituisce ragione di compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
Rigetta il ricorso.
Dispone la compensazione-delle spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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