Con atto di citazione notificato il 13.7.2004 A.A. evocava in giudizio C.C. innanzi il Tribunale di Napoli, invocandone la condanna alla restituzione di un’opera fotografica dell’artista D.D., della quale la convenuta aveva denunciato il furto e che era stata sequestrata e restituita alla stessa, nell’ambito delle indagini relative al conseguente procedimento penale, aperto in danno dell’attore e poi archiviato.
Si costituivano in giudizio la C.C., resistendo alla domanda, e B.B., indicato dalla prima come effettivo proprietario dell’opera.
Nella resistenza dei predetti soggetti il Tribunale, con sentenza n. 2577/2010, rigettava la domanda.
Con la sentenza impugnata, n. 81/2017, la Corte di Appello di Napoli rigettava tanto l’appello principale spiegato dal A.A., che quelli incidentali spiegati dalla C.C. e dal B.B. in relazione al governo delle spese operato dal giudice di prime cure.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione A.A., affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso B.B..
L’intimata C.C. non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria.
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 210 c.p.c. e art. 948 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe: da un lato, erroneamente confermato il rigetto della richiesta di emissione, nei confronti del B.B., di un ordine di esibizione avente ad oggetto la documentazione attestante l’intervenuta vendita dell’opera controversa a terzi; dall’altro lato, erroneamente ritenuto provato che il B.B. avesse a sua volta ceduto l’opera a terzi, in assenza di prova certa del fatto, e che lo stesso non fosse più nel possesso materiale del bene all’atto della proposizione della domanda giudiziale da parte del A.A..
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha affermato che la richiesta di esibizione, già rigettata dal Tribunale sul presupposto che “…il giudice non ha il potere di ordinare ad una parte di fornire indicazioni che la stessa ha ritenuto di non allegare …” (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Ha poi aggiunto che “…la questione dell’inammissibilità o meno di tali richieste non costituisce motivo di appello e del resto le stesse non risultano neanche reiterate in sede di gravame” (cfr. pag. 6 della sentenza). Ed infine, ha rilevato che lo strumento processuale finalizzato ad acquisire dalla parte informazioni circa i fatti di causa non è l’ordine di esibizione, ma l’interrogatorio formale, che nella specie il A.A. non aveva mai richiesto (cfr. ancora pag. 6 della sentenza).
Il ricorrente attinge tale articolata statuizione affermando, quanto alla prima ed alla terza parte della stessa, che l’ordine di esibizione è sempre consentito in relazione a documenti che la parte richiedente non ha il potere di acquisire aliunde (cfr. pag. 23 del ricorso), e che l’interrogatorio formale non avrebbe potuto essere richiesto in relazione a fatti dei quali il A.A. ignorava l’esistenza. Tuttavia il ricorrente non indica per quale ragione l’acquisizione dei documenti comprovanti la rivendita dell’opera a terzi, da parte del B.B., sarebbe stata impossibile se non mediante l’ordine di esibizione; nè chiarisce per quale motivo egli non avrebbe potuto articolare l’interrogatorio formale del predetto interveniente, posto che quest’ultimo aveva eccepito, nelle proprie difese, di non essere più in possesso dell’opera per averla ceduta a terzi, e dunque la relativa circostanza era nota al A.A..
Quanto alla seconda parte del ragionamento della Corte distrettuale, invece, il A.A. sostiene che in realtà l’ordine di esibizione era stato reiterato nel secondo motivo di appello (cfr. pag. 17 del ricorso), che tuttavia non riporta, non consentendo in tal modo al collegio la verifica della fondatezza della doglianza. Sul punto, va ribadito che “La Corte di cassazione, allorquando debba accertare se il giudice di merito sia incorso in error in procedendo, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, nè potendo la Corte ricercare e verificare autonomamente i documenti interessati dall’accertamento, è necessario che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il fatto processuale di cui richiede il riesame, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l’emenda dell’errore denunciato” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20181 del 25/07/2019, Rv.654876; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2771 del 02/02/2017, Rv. 643715 e Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1170 del 23/01/2004, Rv. 569603).
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 948 c.c. e art. 183 c.p.c., perchè la Corte di Appello non avrebbe considerato che la domanda spiegata dal A.A. nella memoria ex art. 183 c.p.c., di condanna dei convenuti al pagamento del controvalore dell’opera, aveva natura risarcitoria, e l’avrebbe ritenuta inammissibile perchè costituente mutatio libelli.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha dato atto che il A.A. aveva chiesto, in atto di citazione, la condanna della C.C. a restituirgli l’opera controversa (cfr. pag. 6 della sentenza). A seguito delle difese della C.C., che aveva dichiarato di aver restituito la fotografia al B.B., e di quest’ultimo, che aveva asserito di averla rivenduta a terzi, il A.A. aveva, con la memoria ex art. 183 c.p.c., formulato in subordine una domanda di condanna dei convenuti al pagamento del controvalore dell’opera (cfr. pag. 7 della sentenza). La Corte distrettuale dà atto che il Tribunale aveva qualificato la domanda principale sub specie di rivendicazione ed aveva ritenuto che il rivendicante, una volta accertato che il bene oggetto della sua domanda non era più nel possesso, avesse spiegato, in via subordinata, non già domanda di risarcimento del danno, bensì invocato la condanna dei convenuti al pagamento del controvalore del bene, ai sensi dell’art. 948 c.c., comma 1, seconda parte. Il Tribunale, inoltre, aveva comunque ritenuto tardiva detta domanda, proposta nella memoria ex art. 183 c.p.c. (cfr. ancora pagg. 7 e 8 della sentenza).
La Corte partenopea ha ritenuto condivisibile la ricostruzione operata dal primo giudice, in punto di qualificazione della domanda, aggiungendo che la censura proposta dal A.A. in appello riguardava soltanto la qualificazione della domanda subordinata, e non anche di quella principale di rivendicazione. Inoltre, la Corte distrettuale ha affermato che l’esercizio della facoltà di mutare la domanda di rivendicazione in domanda di pagamento del suo controvalore presuppone la dimostrazione che il bene stesso fosse nel possesso del convenuto all’atto della proposizione della domanda di rivendicazione, e sia poi stato alienato a terzi in corso di causa, mentre nel diverso caso in cui la cosa sia venuta a mancare, per distruzione o altra causa, già prima del processo, l’unica domanda esperibile è quella di risarcimento del danno, non essendo evidentemente più possibile rivendicare un bene non più esistente (cfr. pagg. 8 e 9 della sentenza). Secondo la Corte di merito, nel caso di specie il A.A. aveva proposto, con la memoria ex art. 183 c.p.c., non già la domanda di risarcimento del danno, bensì la tutela reale sostitutiva prevista dalla seconda parte dell’art. 948 c.c., comma 1. Egli, inoltre, non aveva indicato, nell’atto di appello, “… alcun elemento concreto a sostegno dell’invocata differente qualificazione, laddove invece l’appellante diffusamente tratta dell’ammissibilità di domanda nuove e/o modificate; tali considerazioni concernono però la diversa ratio decidendi pure utilizzata dal giudice e cioè che, se anche la domanda fosse da interpretare come risarcimento del danno, essa sarebbe tardiva” (cfr. pag. 9 della sentenza).
In sostanza, la Corte territoriale ha individuato due concorrenti rationes sulla cui base il giudice di primo grado aveva disatteso la domanda subordinata proposta dal A.A. con la memoria ex art. 183 c.p.c.: in primo luogo, la mancata proposizione, da parte del A.A., di una domanda a contenuto risarcitorio, poichè egli aveva, piuttosto, esercitato l’azione sostitutiva di cui all’art. 948 c.c.; in secondo luogo, la tardività della domanda. Di tali rationes, secondo la Corte di seconda istanza, il A.A. aveva contestato soltanto la seconda, ma non la prima, non avendo allegato, in atto di appello, alcun elemento a sostegno della natura risarcitoria della propria pretesa.
Il motivo propone una diversa interpretazione della domanda formulata da A.A., affermando che questi avrebbe proposto non già la domanda sostitutiva prevista dall’art. 948 c.c., bensì quella risarcitoria, e fonda tale argomento sul rilievo -proposto in atto di appello e debitamente richiamato nella doglianza in esame: cfr. pag. 39 del ricorso, in nota- che la C.C. ed il B.B. sarebbero responsabili di non aver denunciato il furto dell’opera di cui è causa nel (Omissis), data in cui esso sarebbe avvenuto, ma soltanto dieci anni dopo, nel (Omissis). Tale elemento, trascurato dalla Corte territoriale, avrebbe potuto condurre quest’ultima ad una diversa interpretazione della domanda proposta in via subordinata dal A.A., in quanto essa non si riferisce soltanto al bene ed alla sua perdita nel corso del giudizio, ma implica una valutazione a più ampio spettro, estesa anche alla sussistenza della buona fede della parte convenuta e di quella interveniente.
Sul punto, va ribadito che “L’interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007, Rv. 594291). Tale operazione ermeneutica è riservata al giudice di merito ed è sindacabile in Cassazione soltanto: “… a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del petitum, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in judicando, in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, o al vizio di error facti, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 11103 del 10/06/2020, Rv. 658078). Nel caso di specie, si configura l’ipotesi di cui alla lettera c) suindicata, poichè la Corte di Appello ha qualificato la domanda subordinata di cui si discute, escludendone la natura risarcitoria, sulla base dell’erroneo presupposto che il A.A. non avesse indicato, in atto di appello, “… alcun elemento concreto a sostegno della invocata differente qualificazione…”, senza tener conto del decisivo fatto che, al contrario, il A.A. aveva dedotto anche la sussistenza di un profilo di responsabilità nel ritardo colpevole con cui il furto dell’opera era stato denunciato.
In definitiva, va rigettato il primo motivo, mentre va accolto il secondo. La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alla censura accolta, e la causa rinviata alla Corte di Appello di Napoli, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità. Il giudice del rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: “Qualora la parte che agisca in rivendicazione formuli, nel corso del giudizio di primo grado e nel rispetto dei termini scanditi dall’art. 183 c.p.c., una domanda subordinata tendente ad ottenere il pagamento del controvalore del bene, che la parte convenuta abbia allegato, nelle proprie difese, essere perito, esser stato alienato a terzi o essere divenuto comunque indisponibile, detta domanda va qualificata come tutela sostitutiva, ai sensi dell’art. 948 c.c., comma 1, seconda parte, se il richiedente si limita a porre a fondamento della sua pretesa la mera indisponibilità del bene oggetto di rivendicazione; al contrario, nel diverso caso in cui il rivendicante alleghi anche ulteriori profili di responsabilità della parte convenuta, che abbia perduto o alienato il bene rivendicato, alla domanda di pagamento del relativo controvalore va attribuita natura risarcitoria. In tale seconda ipotesi, infatti, il giudice di merito non deve soltanto accertare se il bene sia perito in corso di causa, ovvero prima della proposizione della domanda – potendosi accogliere la tutela sostitutiva ex art. 948 c.c. soltanto nella prima eventualità- ma anche verificare se la condotta della parte convenuta sia stata rispondente ai canoni generali di buona fede e correttezza, all’esito di un accertamento non limitato alla sola individuazione del momento in cui il bene rivendicato sia venuto a mancare”.
la Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Napoli, in differente composizione.
- Redazione
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