Il giudizio trae origine dalla domanda, proposta innanzi al Tribunale di Brindisi, da F.A. nei confronti di C.V. per il rilascio di un fabbricato di sua proprietà illegittimamente occupato dal convenuto.
C.V. si era costituito e, in via riconvenzionale, per quel che ancora rileva in sede di legittimità, aveva chiesto il pagamento dei miglioramenti e delle addizioni apportate, nel periodo di convivenza more uxorio, sull’immobile di F.A..
Il Tribunale di Brindisi accolse la domanda riconvenzionale subordinata; accertò che il C. aveva contribuito alla realizzazione, a proprie spese, del fabbricato sul terreno dalla F. e condannò V.A. , erede universale di F.A., al pagamento di un indennizzo per le migliorie e le addizioni, pari ad Euro 57.895,00, corrispondente alla metà del valore dell’immobile.
La Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 7.7.2016, accolse il gravame proposto di V.A..
In primo luogo, il giudice d’appello, sulla base della valutazione delle risultanze istruttorie, ritenne che C.V. aveva partecipato solo alle spese di realizzazione del rustico del fabbricato.
Per quanto riguardava i miglioramenti, la corte di merito fece applicazione dell’art. 936 c.p.c., secondo cui qualora il proprietario preferisca ritenere le opere sul proprio fondo in tutto o in parte realizzate dal terzo, deve pagare, a scelta, il valore dei materiali ed il prezzo della manodopera o l’incremento di valore delle addizioni. Secondo il giudice d’appello, in caso di mancato spontaneo adempimento, il proprietario deve essere condannato solo al pagamento del minore tra i valori specificati dal legislatore. Alla luce di tale disposizione, secondo la corte di merito, era errato il criterio adottato dal giudice di prime cure, che aveva riconosciuto il 50% del valore complessivo dell’immobile, comprensivo anche del suolo. La Corte determinò quindi l’importo del materiale e della manodopera, decurtandolo in via equitativa del 30% considerando che il C. aveva partecipato solo alla realizzazione del rustico e lo condannò al pagamento di un’indennità pari ad Euro 19.500,00.
La Corte di merito determinò l’indennizzo dovuto dal C. per l’occupazione abusiva dell’immobile successiva alla condanna di rilascio, ai sensi dell’art. 1810 c.c., che determinò in Euro 21.175,00, sulla base del valore locativo dell’immobile.
Per la cassazione della sentenza d’appello ha proposto ricorso C.V. sulla base di due motivi.
Ha resistito con controricorso V.A..
Va preliminarmente evidenziato che nel giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 c.p.c. e segg. (ex multis Cassazione civile sez. III, 03/12/2015, n. 24635).
Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 936 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; sostiene il ricorrente che, in caso di opere fatte da un terzo con materiali propri, la corresponsione al terzo del valore dei materiali e del prezzo della manodopera o dell’incremento di valore va subordinato alla scelta del proprietario di esercitare il diritto di ritenzione; nel caso in cui tale scelta non sia effettuata, il giudice dovrebbe liquidare d’ufficio l’indennizzo sulla base degli elementi a disposizione, sempre che il terzo in buona fede ne abbia fatto domanda. Il ricorrente richiama i principi espressi da Cass. 21612/2009, rilevando che il giudice avrebbe dovuto tener conto della durata della convivenza more uxorio e del contributo lavorativo offerto dal C. Inoltre sarebbe errato il riconoscimento al terzo del 70% delle spese sostenute per la realizzazione del rustico nonostante fosse emerso in giudizio che il C. aveva pagato integralmente dette spese, oltre ai lavori di finitura ed alla manutenzione del fondo.
Il motivo è fondato.
L’art. 936 c.c., disciplina l’ipotesi in cui un terzo, che non vi sia in alcun modo legittimato nè autorizzato, realizzi un’opera su un fondo altrui; la norma detta una disciplina differente per l’ipotesi in cui il proprietario voglia trattenere le opere eseguite sul suo fondo senza autorizzazione da quella in cui invece vuole che siano asportate.
L’art. 936 c.c., trova applicazione soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo (cfr. Cass. n. 5072 del 1993; Cass. n. 895 del 1997; Cass. n. 11835 del 2003; Cass. n. 12550 del 2009). La norma mira a regolare gli effetti patrimoniali che conseguono ad un’attività di costruzione su suolo altrui ad opera di chi o non sia vincolato al proprietario dell’immobile da alcun rapporto negoziale ovvero lo sia ma in ragione di un rapporto giuridico che non comporta una specifica disciplina della realizzazione dell’opera. Resta, di conseguenza, escluso che possa essere considerato terzo ai fini della norma in esame tanto colui che abbia eseguito l’opera in base ad un contratto concluso con il proprietario dell’immobile (salvo l’ipotesi di invalidità o risoluzione; Cass. n. 956 del 1995; Cass. 895 del 1997). La disciplina dettata dall’art. 936 c.c., in altri termini, può trovare applicazione soltanto quando l’autore delle opere non sia legato al proprietario del suolo da un rapporto giuridico che detti una specifica disciplina delle opere ivi realizzate.
Il principio è talmente ancorato alla tradizione giuridica che non prevede deroghe nemmeno nel rapporto coniugale: invero, anche se un coniuge contribuisce alla realizzazione di un edificio situato sul fondo di esclusiva proprietà dell’altro non acquista alcun diritto sullo stesso, nè esso può costituire oggetto di comunione. Il coniuge non proprietario potrà tutt’al più, chiedere la ripetizione di quanto versato, purché sia in grado di provarne i conferimenti (Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2010, n. 20508).
La questione giuridica sollevata dal ricorrente attiene alla qualificazione giuridica dell’azione posta in essere dal convivente more uxorio nei confronti del proprietario del suolo, una volta cessata la convivenza, che abbia contribuito con il proprio lavoro o con dazioni di denaro alla costruzione della casa che sarebbe dovuta diventare o era diventata abitazione comune.
In tal caso, le prestazioni di opera e di denaro vanno a vantaggio del proprietario esclusivo del fondo sul quale l’opera fu edificata che, per il principio di accessione, acquista la proprietà di quanto realizzato mediante il contributo del convivente o di chi è stato legato da una relazione sentimentale, per la realizzazione di un progetto di vita comune.
Secondo l’orientamento di questa (Corte Cassazione civile sez. III, 07/06/2018, n. 14732), al quale il collegio intende dare continuità, l’azione deve essere inquadrata nell’ambito dell’azione generale di arricchimento senza causa, connessa allo scioglimento della famiglia di fatto.
La ratio dell’art. 2042 c.c., che contempla il principio di sussidiarietà dell’azione di arricchimento ingiustificato, è quella di evitare che il depauperato possa a sua volta divenire autore di arricchimento ingiusto.
Nel caso di specie, trova applicazione il principio di sussidiarietà, stante la non esperibilità del rimedio tipico previsto dall’art. 936 c.c., essendosi determinato uno squilibrio tra le sfere patrimoniali dei due ex conviventi, benché lo spostamento patrimoniale non fosse giustificato dalla presenza di alcun titolo, in quanto non era stato stipulato alcun contratto o instaurato altro tipo di rapporto.
L’arricchimento senza giusta causa rientra pertanto, tra “gli altri fatti” di cui all’art. 1173 c.c., che sono idonei a costituire fonte delle obbligazioni.
Questa esigenza è legata alla pretesa dell’ordinamento a che ogni “arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela” (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330).
I principi da applicare sono stati compiutamente espressi da Cass. 11330/2009, che, da un lato ricostruisce sistematicamente tutte le ipotesi in cui non si possa legittimamente richiamare la mancanza di causa del conferimento, a fondamento dell’azione di arricchimento, dall’altro fa applicazione degli indicati principi proprio in relazione ad un disciolto rapporto di convivenza more uxorio: “l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’ obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”.
Nel caso di specie, il conferimento di denaro e del proprio tempo impiegato per la costruzione della casa, che è stata la dimora comune, è stato senz’altro volontario da parte del C., posto che le parti vi hanno coabitato per alcuni anni.
In ragione della proprietà esclusiva del terreno e dell’operatività del principio dell’accessione, quel conferimento è andato di fatto ad integrare un bene che è entrato, per le regole che disciplinano i modi di acquisto della proprietà, nella proprietà esclusiva della convivente.
Tuttavia, detto conferimento non era a suo vantaggio ma era finalizzato alla formazione ed alla fruizione comune di un bene, ragione per la quale va escluso l’animus donandi.
Nel momento in cui lo stesso progetto dell’esistenza di un patrimonio e di beni comuni è venuto meno, perché si è sciolto il rapporto sentimentale tra i due ed è stato accantonato il progetto stesso di vita in comune, al convivente che non si è preventivamente tutelato in alcun modo non potrà essere riconosciuta la comproprietà del bene che ha collaborato a costruire con il suo apporto economico e lavorativo, ma avrà diritto a recuperare il denaro che ha versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate volontariamente, per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento.
Pertanto, i contributi, in lavoro o in natura, volontariamente prestati dal partner di una relazione personale per la realizzazione della casa comunque non sono prestati a vantaggio esclusivo dell’altro partner e pertanto non sono sottratti alla operatività del principio della ripetizione di indebito.
Qualora le prestazioni siano state spontaneamente erogate non in favore esclusivo del partner ma in vista della realizzazione di un progetto comune, occorre poi verificare se all’applicabilità delle norme sull’ingiustificato arricchimento osti la disciplina delle obbligazioni naturali, considerata l’entità degli esborsi ci conferimenti.
In tal caso, le prestazioni patrimoniali di uno dei conviventi “more uxorio” possono inquadrarsi nello schema dell’obbligazione naturale solo se hanno come effetto esclusivo l’arricchimento del partner e sussiste un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi (Cassazione civile sez. II, 13/03/2003, n. 3713).
La natura di obbligazione naturale sarà esclusa ove gli esborsi superino la soglia di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partners e superino il normale contributo alle spese ordinarie della convivenza (Cass. n. 1266 del 2016).
Nel caso in esame, non è mai stato messo in discussione che C.V. abbia fatto realizzare arbitrariamente opere non autorizzate, avendo, al contrario contribuito con il proprio lavoro alla realizzazione delle opere autorizzate dalla convivente proprietaria del suolo e, quindi, di comune accordo in quanto la costruzione doveva costituire l’abitazione della coppia.
Il motivo di ricorso va, pertanto, accolto, sulla base di una ragione di diritto diversa da quella prospettata dal ricorrente, essendo fondata sulla medesima prospettazione dei fatti (Cassazione civile sez. III, 28/07/2017, n. 18775).
La sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione, che regolerà le spese del giudizio di legittimità ed applicherà il seguente principio di diritto: ” L’art. 936 c.c., trova applicazione soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo. La norma non si applica nell’ipotesi in cui le opere siano state realizzate dal convivente da chi sia legato ad una relazione sentimentale con il proprietario del suolo ed abbia impiegato denaro e tempo libero per la costruzione dell’abitazione comune e non a vantaggio esclusivo del convivente”.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione.
- Opere compiute dal convivente “more uxorio” a sue spese sull’immobile di proprietà del partner – Cessazione della convivenza – Azione ex art. 936 c.c. e corrispondente obbligo di indennizzo a carico del proprietario dell’immobile – Non configurabilità – Azione generale di arricchimento senza causa da parte del depauperato – Sussistenza – Condizioni..
- Cod. Civ. art. 936, Cod. Civ. art. 2041, Cod. Civ. art. 2042.
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